Profit. Why not?

Possono lavorare insieme il mondo del non profit con il mondo del profit nella cooperazione internazionale? Fabio Pipinato, cooperante, cerca di dare una risposta. Intanto butta benzina sul fuoco.

Il mondo della cooperazione internazionale, dopo la legge di riforma sulla cooperazione internazionale (DpR 125/2014) che apre al profit sembra spaesato. Credo che una sperimentazione vada tentata. Non solo cooperando con il profit ma anche investendo nel profit. Per farlo bisognerà però sgomberare il campo da alcune incrostazioni culturali. E, timidamente, ci provo.

1)  Il “non profit†non esisterebbe senza profit. Solo nelle realtà più ricche, infatti, esistono ong e privato sociale. Nello stesso sud d'Italia i numeri delle onlus precipitano rispetto al nord. Ciò è valido sia storicamente (il non profit a pari passo con il benessere) che geograficamente. Per cui prima si genera reddito (con il profit), poi lo si tassa (con lo Stato) ed infine lo si redistribuisce anche con il non profit.

2) Intraprendenza. Nel profit non si sbadiglia. Da una parte lo stipendio viene guadagnato mentre dall'altra, spesso, è un diritto. Alla firma sul contratto indeterminato segue un calo di tensione.

3) Egualitarismo. Il più grande teorico italiano dell'egualitarismo è una persona a me cara: Federico Caffè; già professore a La Sapienza di Roma. Ebbene; se nel tempo del boom economico ha avuto senso in quanto ha sradicato dalla povertà intere fasce della popolazione estendo diritti adesso appare più come un calmante all'intraprendenza. Le ong, quindi, sono tutte a pari livello e le persone che le abitano idem. Merito e meritorietà non son di casa. Guai a trovare formule e metodi che incentivino il lavoro.

4) Conservazione del posto. Quando le realtà non profit sono costrette a chiudere un contratto, per fine progetto, od a mettere in mobilità alcuni impiegati (non li chiamo volutamente lavoratori per rispetto di chi sta in miniera o in cava) apriti cielo. Pioggia di diritti ed appelli come avessero un peso specifico, in termini di diritti, maggiore di altri occupati che la crisi ha espulso nel silenzio più totale. Naturalmente, ivi, non includo il settore pubblico ove è vietato licenziare. Compresi nullafacenti e pedofili.

5) In cooperazione internazionale conta chi ha fondi ingenti, anche con attività di raccolta, oppure chi sa meglio comunicare. Non conta, of course, chi si misura con il mercato. La tua prestazione sanitaria è costosa come quella della clinica privata? E se il tuo pozzo fosse stato fatto da una compagnia cinese quanto sarebbe costato? E così via. Anzi; talvolta l'intervento di cooperazione che si avvale di export di ogni bene disturba il mercato locale. Ma è una sottigliezza.

6)  Esclusione. La mia recente partecipazione all'expò dei popoli mette in evidenza quanto sia ancora difficile per il non profit aprire il dialogo al profit e non l'inverso. Quasi esistesse un “complesso d'inferiorità†sul quale dovremmo lavorare parecchio. Quando inventai il “world social forum†non volevo pormi, come poi è stato, in alternativa al “world economic forum†ma in sinergia. Tutti i tentativi di dialogo tentati (scusate il gioco di parole) sono falliti per colpa nostra: del non profit.

7)  Superman. Il complesso di Superman, per dirla con l'amico Serrano, è proprio di una parte ma non necessariamente dell'altra. Quanti salvatori esistono nel nostro mondo senza i quali tutto cadrebbe miseramente? Quanto bisogno di visibilità e riconoscimento. Ora, se analizziamo la principale impresa mondiale non troveremo tutta questa “grandeur†dichiarata. Anzi, troveremo la “micro†da un lato ed il “soft†dall'altro. Vietato raccontare che la Microsoft sostiene la fondazione Melinda che ha più denari dell'OMS.

8)  Idolatria. Lo staff dell'organizzazione non profit deve sempre adorare il fondatore. Se non lo fa... “quella è la portaâ€. Mentre lo staff dell'organizzazione profit, all'estremo opposto, deve adorare l'utile di bilancio e se non lo fa quella è la finestra. Vi confesso che nel primo caso intravvedo un inchino mentre nel secondo una tensione che fa il paio con sostenibilità.

9)  Networking. Non è detto che le ong si mettano assieme per accedere a budget più importanti. Se 1+1=3 il profit organizza subito associazioni temporanee d'impresa o di scopo e via con il business. Il non profit resta a giocare a “mamma casettaâ€.

10) Versatilità. Il profit è più versatile del non profit per rispondere alle esigenze del mercato. Certo. Con la progettazione a lungo termine si possono impostare politiche ma v'è il rischio e l'incapacità di rispondere a nuove domande.

Pur avendo lavorato soprattutto nel non profit, ho tentato spesso e talvolta con successo di dialogare con il profit. Tentare di creare nei sud del mondo imprese profittevoli che impieghino personale ed abbiano sostenibilità propria (o tensione alla sostenibilità) sin dall'ideazione è una modalità che m'intriga. E che va esplorata. Sopra ho volutamente esagerato screditato un mondo che mi vede impeganto da 30 anni e condivido l'allerta di Mauro Cereghini su Unimondo: “Stona però, a parte il bando ai produttori di armi, l'assenza di vincoli o indirizzi significativi al ruolo delle impreseâ€. Credo però che come laboratorio trentino possiamo avviare qualche esperimento forti dei nostri saperi: dal turismo all'agricoltura.

  28 Giugno 2015
Centro per la Cooperazione Internazionale
Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani
Osservatorio balcani e caucaso