L'autosufficienza alimentare

La parola nasce negli anni Sessanta del Novecento. Essa definisce la possibilità per un Paese di produrre tutto il cibo necessario a sfamare la sua popolazione con un particolare interesse per i prodotti base dell’alimentazione: riso, mais e tuberi (ad esempio manioca e igname).

Ha rappresentato per molti Paesi, in particolare dell’Africa, dell’America latina e dell’Asia, una linea politica da seguire negli anni successivi all’indipendenza dalle potenze coloniali (periodo conosciuto come decolonizzazione, iniziato nel 1947 con l’indipendenza dell’India e secondo l’ONU non ancora concluso in quanto decine di isole e territori permangono sono sotto la sovranità straniera).

I nuovi Paesi e i loro governi hanno fatto del cibo e dell’agricoltura il centro dei propri programmi e azioni politiche. Lo hanno fatto anche perché legittimati dal fatto che il diritto al cibo era stato sancito dalla Dichiarazione Universale del 1948 (art. 11 e art. 25): nessuno al mondo avrebbe più dovuto morire di fame. L’obiettivo alla scala globale era quello di sconfiggere in modo definitivo le carestie strutturali e per farlo bisognava promuovere l’economia agricola di questi nuovi Paesi.

Per i Paesi neo indipendenti, non si trattava solo di incentivare quindi le produzioni locali di cibo, ma anche di creare le condizioni perché questo cibo venisse consumato localmente realizzando magazzini per la conservazione, infrastrutture per il trasporto verso le città, assicurando la stabilità dei prezzi, ecc.

In particolare, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, questi Paesi hanno ricevuto importanti finanziamenti dalle agenzie dell’ONU (es. la FAO), dalle istituzioni finanziarie internazionali come la Banca Mondiale, dai governi dei Paesi ricchi (le ex potenze coloniali), dalle banche dei Paesi arabi. Questi finanziamenti sono serviti a realizzare grandi progetti agricoli per la produzione di riso e mais, infrastrutture (come strade, ponti, ecc.), dighe per l’irrigazione, acquistare macchinari agricoli, ma anche pesticidi, antiparassitari, e fertilizzanti per aumentare la quantità di cibo a disposizione. Questa operazione è stata definita rivoluzione verde e doveva contribuire a ridurre la fame in quei Paesi dove non si riusciva a far fronte ai bisogni alimentari delle popolazioni. La parola chiave di questa operazione è stata “modernizzazione”, in particolare del sistema agricolo considerato “tradizionale” e “arcaico” perché basato su un’agricoltura a gestione familiare che produceva cibo per il sostentamento della propria famiglia (agricoltura di sussistenza) e non per il commercio. Il modello tradizionale era stato ritenuto incapace di rispondere ai bisogni di una popolazione in forte crescita.

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L’obiettivo importante di produrre tutto il cibo necessario per sfamare la popolazione di un Paese non teneva però in considerazione gli effetti negativi che un’agricoltura “modernizzata” produceva sull’ambiente in termini di inquinamento di terra, acqua e aria, e quindi di salute per le popolazioni, ma anche di cambiamenti a livello sociale ed economico. Nel caso delle grandi estensioni di cereali, come riso e mais, le varietà coltivate provenivano dall’esterno, non erano mai varietà locali. Inoltre, nel caso dei paesi dell’Africa occidentale, ad esempio, i progetti per l’autosufficienza alimentare che avevano introdotto la coltivazione del riso negli anni Sessanta, nel giro di qualche decennio hanno modificato radicalmente la dieta alimentare delle popolazioni locali basata tradizionalmente su miglio e sorgo, cerali coltivati in campi irrigati dalle piogge. Oggi l’Africa occidentale è diventata un’importante consumatrice di riso.

Quindi, l’autosufficienza alimentare, pur con l’intento di risolvere il problema della fame, ha dato vita ad una serie di effetti che sono esplosi negli anni Novanta e che hanno costretto le agenzie internazionali e i governi finanziatori a ripensare il modo di gestire la problematica della fame e dell’agricoltura.

Dopo un trentennio (dal 1960 al 1990 circa) di grandi progetti e di allargamento delle superfici coltivate a cereali, molti paesi non erano ancora autosufficienti e si trovarono ancora piĂą dipendenti dalle ex colonie e dalle banche internazionali di quanto non fossero durante il periodo coloniale.

Già verso gli anni Ottanta, i Paesi beneficiari delle politiche di sviluppo agricolo finanziate dalle potenze occidentali e arabe si trovarono ad essere fortemente indebitati: il denaro riversato nei progetti veniva dato in forma di prestito da restituire entro dei termini difficili da rispettare e a condizioni pesanti da mantere. In qualche modo, la logica di coltivare localmente il necessario per dar da mangiare alla popolazione non era riuscita a creare un’economia dinamica in grado di sostenersi. Aveva invece innescato un meccanismo di assistenza attraverso il quale lo Stato dava aiuti all’agricoltura, sovvenzionava i contadini, si occupava di tutto il processo produttivo dalla coltivazione alla vendita con il sostegno dei prestiti stranieri, ma senza generare un guadagno in grado di far rientrare in qualche modo le spese sostenute e poter così pagare i debiti.

La Banca Mondiale e il Fondo Monetario hanno lavorato per risolvere il problema del debito di molti Paesi neo indipendenti e lo hanno fatto attraverso le politiche di aggiustamento strutturale. Si è trattato di misure economiche messe in campo verso gli anni Novanta, attraverso le quali veniva imposto ai vari governi di non assistere più totalmente i propri contadini finanziando gran parte dell’attività produttiva. Così facendo, gli Stati si sarebbero alleggeriti da pesanti impegni finanziari e si sarebbero create le condizioni per una maggiore responsabilità ed autonomia dei produttori. Non sempre questo passaggio è stato facile, in primis perché i produttori, anche se abili nel coltivare, non avevano grande esperienza in materia di commercializzazione o di gestione amministrativa ed economica. In secondo luogo, i produttori erano stati spinti all’interno del mercato, ma erano stati costretti a confrontarsi con produttori molto più influenti e potenti di loro, cioè le grandi imprese agricole dei Paesi di tutto il mondo, anche quelli più ricchi. Questa autonomia dei contadini ha quindi portato a gravi conseguenze sulle attività agricole e ad una nuova ondata di finanziamenti e di interessi stranieri per trovare una soluzione al problema dell’insufficienza alimentare che continuava ad essere presente e di altri problemi che nel frattempo diventavano sempre più gravi: bancarotta delle piccole cooperative o aziende agricole, incapacità di produrre a costi remunerativi, acquisto di sementi di bassa qualità, concorrenza sleale, ecc.

Se da un lato l’autosufficienza mirava a sradicare il problema della fame attraverso le monocolture di cereali, dall’altro, essa creò le premesse per nuove ondate di insufficienza alimentare. Monopolizzando le superfici agricole con un unico cereale, come il riso, diminuirono quelle dedicate ai cereali tradizionali (miglio e sorgo) e diminuì la diversità di scelta di cosa mangiare per i contadini. La questione della scelta di cosa produrre e di cosa mangiare è la chiave di un discorso che prende il nome di sovranità alimentare e che ha rappresentato dagli anni Settanta ad oggi il cavallo di battaglia dei movimenti di contadini che da sempre si sono opposti alle politiche delle grandi agenzie internazionali e delle potenze occidentali.

Oggi, l’autosufficienza alimentare non è più al centro dei discorsi delle agenzie internazionali (FAO, Banca Mondiale, ecc.) o dei governi del Nord. A livello ufficiale, la sicurezza alimentare è diventata la nuova logica di potere che guida l’agricoltura a livello globale.

Fonte: Fondazione Fontana, Word Social Agenda

  19 Agosto 2015
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