EMANUELA CITTERIO

EMANUELA CITTERIO

GIORNALISTA

Giornalista professionista, mi occupo in particolare di innovazione sociale, sostenibilità ambientale e terzo settore, cooperazione internazionale, Africa. Realizzo progetti editoriali, di informazione, comunicazione e sensibilizzazione, sia in italiano che in inglese, in collaborazione con partners istituzionali e privati. Sono fondatrice di una campagna di advocacy sui temi della finanza sostenibile (www.sullafamenonsispecula.org). Ho viaggiato in una decina di Paesi africani.

Il commercio equo compie 30 anni

Oggi in Italia è un fenomeno diffuso e conosciuto, con 300 punti vendita e informazione - le “botteghe del mondo†- , 114 associazioni e cooperative coinvolte e due consorzi, Altromercato e Fairtrade Italia. Nel 1985, però, esistevano solo tre amici in un garage a Bolzano, che avevano cominciato a importare manufatti di juta prodotti da una cooperativa di donne del Bangladesh. Rudi Dalvai era uno di loro. Anzi, quello che aveva convinto gli altri due. Lui per primo aveva lasciato il suo lavoro a tempo pieno in una ditta di surgelati per inseguire un sogno che si sarebbe delineato passo dopo passo: dimostrare che era possibile instaurare rapporti commerciali trasparenti con i Paesi più poveri del Sud del mondo attraverso un rapporto continuativo con i piccoli produttori, pagando il giusto prezzo e garantendo migliori condizioni di lavoro. Oggi Dalvai, oltre a essere il fondatore del commercio equo e solidale in Italia è il presidente della World Fair Organization, che riunisce a livello mondiale tutte le organizzazioni equosolidali.

Cosa la spinse a fare il primo passo e a fondare la prima bottega equosolidale nel 1985 a Bolzano?

A essere sincero non c’era una visione chiara. Durante un viaggio in Bangladesh avevo conosciuto un gruppo di donne che realizzava artigianato in juta e questo incontro mi aveva colpito. All’inizio volevo solo aiutarle a sviluppare questa attività. È stato con gli anni e con gli incontri successivi che mi è diventato chiaro che questo era stato solo l’inizio di un percorso. Non sono di quelle persone che partono con un’idea in testa già ben precisa. Ancora adesso mi sorprende cosa ne è venuto fuori. Non avrei mai immaginato di poter conoscere così tante realtà in tutto il mondo, dai produttori di caffè in America Latina a quelli di zucchero delle Filippine. Sono incontri che hanno arricchito la mia vita.

In che fase si trova oggi il commercio equo? L’ultimo rapporto dell’associazione di categoria, Agices, segnala un calo di fatturato…

Sui dati negativi ha pesato la crisi economica che tutti conosciamo. È innegabile però che il commercio equo un po’ in crisi sia. Non dico che abbia bisogno di reinventarsi, perché il messaggio resta sempre lo stesso. Ma di rivitalizzarsi sì. Nei singoli Paesi il movimento equosolidale deve cominciare a fare più rete con le diverse pratiche di economia sociale a livello nazionale, diventare un tassello di un’economia diversa che pian piano si sta sviluppando, grazie soprattutto alla maggiore consapevolezza dei consumatori. E questo vale per l’Italia così come per gli Stati Uniti e l’India. Bisogna anche allargare il concetto di commercio equo, rinnovarne gli schemi.

Lo schema “nord del mondo†che compra i prodotti del “sud del mondo†per sostenere i produttori locali è superato?

In trent’anni il mondo è cambiato, le categorie non possono più essere le stesse. Oggi negli stessi Paesi europei ci sono tanti “sudâ€. In Italia c’è stato un episodio che ce lo ha fatto capire: Rosarno e la rivolta dei raccoglitori di arance, lì c’è stato un punto di svolta. In alcuni Paesi europei – in Italia si sta cominciando ora – si è scelto di sviluppare il “domestic fair tradeâ€. Il consorzio Altromercato ha creato 'Solidale Italiano', un marchio per i prodotti realizzati da produttori italiani secondo i principi del commercio equo e solidale. Nelle botteghe del mondo ora, accanto ai prodotti che arrivano dal Sud del mondo, ci sono i prodotti delle cooperative che lavorano in carcere, quelli coltivati sui terreni confiscati alla mafia e i prodotti ottenuti con metodi di agricoltura sostenibile.

Il commercio equo è stato spesso etichettato come una bella iniziativa, ma di nicchia, non in grado di cambiare davvero le regole che governano il commercio e l’economia. Cosa ne pensa?

Trent’anni fa il biologico era ridicolizzato. Oggi nessun supermercato potrebbe evitare di venderlo. Fino a pochi anni fa negli Stati Uniti sembrava che tutti dovessero bere un’unica marca di birra, invece oggi in ogni paesino oggi c’è una birreria artigianale. È cresciuta l’attenzione a consumare prodotti locali nel rispetto dell’ambiente, sono nati i mercati dei contadini e i gruppi di acquisto. C’è stato un cambiamento di tendenza e sono sicuro che il commercio equo è stato parte di questo cambiamento. Ora deve porsi più in sinergia con tutti questi fenomeni.

In che modo?

Concependosi come un tassello importante per costruire un’economi a più giusta. Dobbiamo anche comunicare meglio che il rapporto con il produttore è al centro della nostra attività, che c’è un commercio equo con questo valore aggiunto. L’obiettivo di chi fa commercio equo non è solo soddisfare il consumatore, offrendogli un prodotto di qualità ed etico, ma continuare ad appoggiare i piccoli produttori, perché il problema dello sfruttamento non è risolto. Vediamo ancora tragedie come vent’anni fa. I bambini resi schiavi per produrre il cacao e il cioccolato ci sono ancora. Così come lo sfruttamento dei lavoratori nel settore tessile. In paesi come le Filippine difendere i diritti dei contadini può ancora costare la vita, come si è visto l’anno scorso con l’omicidio di due rappresentanti del commercio equo locale.

Fonte: Unimondo

  19 Agosto 2015
Centro per la Cooperazione Internazionale
Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani
Osservatorio balcani e caucaso